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ATENE — Era SuperPippo, ora è SuperGoofy. Il Liverpool fa la conoscenza con il supereroe piacentino, il ragazzo che è nato due volte. Filippo Inzaghi viene dal centro della pianura, da quel luogo di nebbie e ambiguità, dai contorni sfumati, dove ci si abitua a navigare a vista, dove chi non conosce le regole e le leggende finisce in qualche roggia a testa in giù. SuperPippo sbuca da lì per diventare SuperGoofy che poi non è altro che la traduzione del suo soprannome in inglese.
SuperGoofy è un personaggio apparentemente goffo che ne combina di tutti i colori, che sa tirarsi fuori d’impaccio con una forza di volontà e una classe inafferrabili per chi non ne conosce le caratteristiche. Alla fine raggiunge il risultato, al termine della gara in qualche modo vince, diventa l’eroe che quel «super» che lo precede pretende imponendogli genialate da supereroe, ma anche trovate improvvise da guitto, e, all’occorrenza, colpi di fortuna, improvvisazioni da estrarre da una partita come questa, così brutta, per un tempo, da sembrare finta. Ma ci pensa lui a renderla più vera, se non altro, con il suo primo gol, una carambola sulla spalla, un colpo che devia la punizione di Pirlo dentro la porta di Reina, un altro portiereammaliatore, ma nonabbastanzada fermare SuperGoofy. «Uno schema — scherza alla fine —, Pirlo è bravissimo a centrarmi. Comunque ho già segnato due o tre volte nello stesso modo in passato». Di lui sir Alex Ferguson, in tempi lontani, disse che «è nato in posizione di offside».
In realtà Filippo Inzaghi è nato in quella zona di confine dove vivono gli attaccanti con l’istinto del carnivoro, con un’unica fede, un’unica ideologia: quella del gol. E se la prima rete SuperGoofy la segna così come viene, per la seconda si nutre proprio dei frutti che crescono in quell’area grigia, dove si vive sul filo dell’equilibrio, dove si deve fare il passo giusto al momento giusto e non sbagliare, altrimenti qualcuno sbandiera. Lì è il posto dove vive Filippo Inzaghi, l’unico giocatore che non si perde un ritaglio, una pagella, che cercava all’interno della grande rivincita milanista, una revanche personale. L’aspettava da Manchester, dal 25 maggio 2003, perché, sebbene quel giorno ci sia stato anche lui dentro la partita, in mezzo alla festa, sebbene quel giorno il Milan abbia vinto la Coppa dei Campioni schiantando la Juve nel derby di Champions, Pippo ancora si rammaricava per un’occasione fallita, per un gol sbagliato che aveva cancellato, nella memoria popolare, tutte le sue gesta mirabili in quella lunga stagione, consegnando alla storia solo gli occhi di Shevchenko, quel turbinio di sguardi prima del rigore infilato dentro la porta di Gigi Buffon, nel cuore dei sogni bianconeri.
Cercava una serata come questa, Pippo, perché non gli bastavano i gol, come non gli bastano ora che sono diventati 42 in Champions League e 58 in totale in Europa. Una montagna per questo attaccante che compirà 34 anni il 9 di agosto, un ottomila, per questo ragazzo che ora dovrà portare dieci amici in vacanza ad Agadir, uno score (come direbbe SuperGoofy) che lo colloca tra i grandi rapinatori, tra i velociraptor, tra i feroci dell’area di rigore, quelli che comunque sanno esaltarsi, sanno commuoversi, come fa lui ora che gli hanno consegnato la medaglia d’oro del primo arrivato, come ora che può toccare la coppa, che l’hanno proclamato man of the match, che si è fatto, come Berlusconi (quello che gli aveva telefonato, assicurandogli il posto), un giro di pista personalizzato a ricevere l’applauso dei tifosi. «Queste sono serate che rimangono per tutta la vita. Io avevo già avuto la soddisfazione di vincere la Champions, ma due gol in finale… Ancora stento a crederci, dopo una carriera così è una storia bellissima. A chi dedico il successo? Al giornalista Alberto D’Aguanno, che non c’è più».
Poi, la dichiarazione d’amore al Milan: «Quando ho saputo che avrei giocato? Lo sapevo da un po’, ero sicuro che se avessi dimostrato in allenamento di star bene, il mister mi avrebbe scelto. Ma anche se fossi andato in panchina non sarebbe stato un problema: io mi sento sempre importante in questa squadra. Di sicuro questa sarà l’ultima maglia che indosserò: due Champions e uno scudetto non si dimenticano, resterò a vita. Questa vittoria è merito di una favolosa unione di intenti: di noi giocatori, dell’allenatore, della società. Non scordiamoci che noi nazionali abbiamo fatto sei giorni di vacanza: abbiamo dimostrato che siamo uomini veri». Cercava una serata come questa, il giocatore che si è inventato la dieta del successo, bresaola, pasta in bianco e biscotti plasmon. Una serata in cui ci fossero i suoi gol e il trionfo, una serata da unica punta, da protagonista e basta. Una serata che mandasse in archivio la sua vita da pendolare con Anversa dove cercava di tornare il campione di prima. Quello di adesso, quello di Atene. «Sono stato lontano dai campi un anno, nessuno mi ha mai messo in discussione, tutti mi hanno aspettato». SuperPippo senza traduzione. Basta la parola. Pardon, i gol.
Roberto Perrone
CORRIERE.IT
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