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Quei volti bianchi di paura

today08/04/2009 1

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Non si è cancellata la memoria d e l mostruoso terremoto del 1915 ed ecco che incombe un altro grande sfracello che scuote la terra, butta giù le case, uccide e ferisce chi ha la sfortuna di abitare in Abruzzo. Anche il terremoto del ’15 che aveva come centro Avezzano si è presentato di notte quando la gente dormiva, facendo piu di trentamila morti. Le case dei contadini erano costruite senza fondamenta e sono cadute come fossero di cartone, una sull’altra, seppellendo intere famiglie colte nel sonno.

Ma oggi, con la tecnologia nuova e le nuove conoscenze, ci si aspettava che le case fossero piu resistenti, soprattutto quelle costruite dopo i terremoti che si sono susseguiti nei primi anni del Novecento e dopo l’ultimo dell’80. E invece no: le prime a essere danneggiate sono state proprio le costruzioni che avrebbero dovuto garantire sicurezza e asilo: la prefettura, l’ospedale, gli alloggi per gli studenti. Strutture per cui sono stati spesi tanti soldi pubblici e che erano date per sicure ed elastiche. La questione della resistenza ai terremoti infatti non sta nella robustezza delle architetture ma nella loro elasticità. Che permette alle case di assorbire le scosse senza esserne frantumate. È lecito dubitare della correttezza delle ultime ricostruzioni? La risposta è piu sì che no.

Ma questo si vedrà quando l’emergenza sarà finita e si ripenserà al sisma con più tranquillità. Sono rientrata da Los Angeles, città che convive con i terremoti e perciò si è perfettamente attrezzata per affrontarli e ha stabilito regole rigidissime per chiunque voglia costruire case nuove. La notte stessa del mio arrivo vengo svegliata nella mia casa di Roma da una scossa che fa tremare il letto e butta giù dagli scaffali alcuni libri. Mi sveglio spaventata. Mai immaginando che quelle scosse venissero dal mio amato Abruzzo e che fossero le ultime propaggini di un sisma furibondo che partiva dalle piccole città di Paganica e Onna per arrivare, ormai sfiatate fino alla capitale. Solo la mattina dopo ho saputo quello che era successo.

Mi sono affrettata a chiamare gli amici ma le linee erano bloccate. La preoccupazione è diventata assillante. Poi ho visto sullo schermo quei corpi estratti dalle macerie, quelle case sgretolate, quelle facce bianche di spavento e di polvere ed mi si è stretto il cuore. So bene cosa sia la paura che incute il terremoto. Ne ho sofferto da bambina in Giappone, paese che conosce la quotidiana inquietudine di una terra mai ferma e stabile. La guerra stava per finire, ero in campo di concentramento, ero bambina. Ma ricordo perfettamente un terremoto catastrofico che ci colse una mattina all’alba. Siamo stati svegliati da un boato e poi le mura hanno cominciato a tremare. Ci siamo precipitati per uscire. Io cercavo di scendere le scale ma non riuscivo a stare in piedi. Sono arrivata in basso seduta sui gradini, guadagnando la discesa un gradino per volta, mentre dietro di me sentivo cadere pezzi di parete ed ero raggiunta e soffocata da calcinacci e polvere. Ricordo che mio padre acchiappò per un piede mia sorella Toni che stava precipitando dalla tromba delle scale.

Quando siamo riusciti a raggiungere la porta di ingresso, ci siamo trovati davanti un cortile divelto, la terra che si apriva sotto i nostri piedi. Eppure, nonostante la violenza di quelle scosse, la casa non è caduta. Perché era stata costruita con criteri antisismici. L’ho vista letteralmente piegarsi da una parte e poi dall’altra come un giocattolo di gomma, ma non è andata in pezzi. È questo che dovremmo imparare dal Giappone: la grande sapienza in fatto di movimenti tellurici, la tecnologia avanzata in fatto di prevenzione e ricostruzione. Oggi vedo sulle facce degli abruzzesi colpiti dal terremoto quella stessa paura che lascia senza fiato, quell’incertezza del futuro che ti attanaglia. Però vedo anche la voglia di aiutare, di rimboccarsi le maniche e dare una mano. A sentire i miei amici per telefono, sono tutti in moto gli abruzzesi da lunedì mattina, anche coloro che non sono stati colpiti direttamente dalla sciagura. Come sempre il nostro paese dà il meglio di sé nei momenti di pericolo. La generosità si esprime in silenzio, senza esibizione e viene raccontata da persona a persona.

Come quella dell’uomo che ha rischiato la vita arrampicandosi su un balcone pericolante per salvare una bambina, figlia di vicini. O quella della ragazza che è tornata nella casa che stava crollando per tirare fuori un anziano incapace di muoversi, o ancora quella degli studenti che hanno scavato a mani nude tutta la notte per salvare uno di loro rimasto incastrato fra le travi di cemento. Ci sono anche gli sciacalli, come sempre. Vilissimi individui che approfittano del disastro e della disperazione per intrufolarsi in casa d’altri e portare via qualche oggetto di valore. Sono gli stessi che in tempi di quiete, vanno davanti alle scuole a distribuire la droga ai ragazzini, gli stessi che chiedono il pizzo e quando uno non paga lo uccidono con una pistolettata. Una Italia brutale e senza scrupoli , abituata a vivere contro gli altri e sopra gli altri. Il dolore. Come affrontare un dolore così vasto, così capillarmente diffuso e collettivo? Sono stati chiamati degli psicologi. Ma cosa possono fare dei tecnici della psiche in una situazione di così grave emergenza?
Quando manca il letto per dormire, l’acqua per lavarsi, un piatto caldo per nutrirsi, è difficile interrogare e sollevare una psiche rattrappita e offesa. Fra le tante storie mi ha colpito quella degli studenti che abitavano nella casa costruita per loro, al centro dell’Aquila. Una palazzina apparentemente elegante ma tirata su con disinvoltura e disprezzo della vita. I pezzi di muro che sono rimasti in piedi mostrano pareti sottili e fragili, friabili come fossero di biscotto. Da lì alcuni sono scappati quando hanno sentito i boati, le scosse e gli scricchiolii sinistri che hanno preceduto il grande terremoto. Altri invece sono rimasti, perché nessuno li aveva avvisati del pericolo imminente, della fragilità della casa. Lì sono sotterrati alcuni studenti che oggi avrebbero potuto essere vivi. Compreso un ragazzo che era scampato alle bombe di Gaza ed è rimasto sepolto sotto le macerie di una casa abruzzese, in una città civile, bella e pacifica. Tante altre invece sono storie dolorose di incontri con la morte che sembrano essere stati decisi altrove con sadica crudeltà. Un ragazzo che va a dormire dalla nonna che è sola e muore con lei mentre tutta la famiglia si salva nella casa dove abitava.

Una sorella sceglie la gita scolastica e si salva mentre l’altra che decide di rimanere in casa con la madre, muore stritolata. Qualcuno dice che la maggior parte di queste morti si potevano evitare. C’erano state decine di scosse per tutta la settimana precedente. Una fortissima poi aveva allarmato gli aquilani la sera di domenica alle 23. Molti avevano telefonato chiedendo un parere. Ed era stato loro risposto che dovevano rimanere in casa, che non c’era pericolo. Si sa che non si possono prevedere con esattezza i terremoti, ma certamente si possono mettere in funzione delle strategie di difesa e di fuga quando un terremoto si annuncia con tanta insistenza come questo. Per lo meno si doveva avvertire la gente che c’era un pericolo, anche se non certo. Si poteva dichiarare pubblicamente che a tante scosse poteva seguire un’onda micidiale. Un’altra storia che commuove per la sua umiltà e allegoricità è quella delle pantofole zuppe d’acqua che le donne sono state costrette a portare ai piedi essendo scappate di casa senza avere il tempo di infilarsi le scarpe.

La casa è vicina, nell’armadio ci sono gli scarponcini da fango, impermeabili e calde. Ma è proibito entrare, per qualsiasi ragione. Dovranno tenersi addosso le pantofole fatte pesanti dalla mota. Poi finalmente ecco il sole. La mattina di martedì si presenta fredda ma assolata. E improvvisamente spuntano centinaia di pantofole, povere, stanche e sporche, posate qua e di là sulle pietre, sui legni abbandonati, sui pezzi di casa rimasti in piedi, per poterle finalmente rimettere ai piedi asciutte. Tanti dicono che «hanno scavato a mani nude». Ma cosa vuol dire? Sembra una frase fatta, ma diventa la verità quando non si trovano in giro né vanghe né badili ne zappe, né torce né carriole. Sono questi gli strumenti che dovrebbero stare ad ogni angolo di strada nei paesi a rischio sismico. Come nei treni, dentro teche apribili con un colpo, pronte all’occorrenza.

E invece molti si sono trovati a scavare con pezzi di cartone, barattoli vuoti, strumenti improvvisati e inefficienti. Cosa augurare a un paese così poco attento alle regole, così portato ad un anarchismo che si confonde con l’arbitrio puro? Cosa possiamo auspicare se non di imparare qualcosa dagli errori del passato? Meno progetti grandiosi e più lavoro umile e fattivo sul territorio soprattutto quando è a rischio sismico. Un pensiero piu generoso, una visione più grande e più spaziosa del futuro, che comprenda l’interesse del paese e non solo il nostro piccolo tornaconto. È troppo chiedere?

Dacia Maraini

CORRIERE.IT

Written by: admin

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